Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
Quando ti ho preso le mani
ho capito
come sei giovane.
Le mie dita sono sottili:
si plasmano alle cose
e a lungo ne conservano
l’impronta –
per uno spino sanguinano,
per una piuma tremano
di dolcezza.
Le mie mani son così pallide:
attraversate dalla vita
in ogni senso – come
da lunghe vene
azzurre.
Forse la loro pace
è fra i tenui riccioli
di un bimbo.
Le tue dita sono rudi:
afferrano le cose
per esserne padrone,
non si scalfiscono a nessuna
pietra.
Mani di colore vivo,
che hanno toccato solo
quel che hanno scelto –
mani che sanno scavare
nella ghiaia dei fiumi,
nel fango delle grotte,
per estrarne tesori.
Non tu,
ma le tue mani giovani
dicono alle mie mani,
a me: Come siete
vecchie.
(Antonia Pozzi, Desiderio di cose leggere Salani Editore 2018)
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Non ricordo quando è stato
la prima volta che ti ho incontrato.
Ma ricordo i tuoi occhi
muti
fissi davanti a uno specchio
che non conoscevano parole,
ma solo numeri
e un numero ero
nei tuoi occhi di cielo.
Volevo farti ridere
per il gusto di veder spalancati i tuoi orizzonti sul mondo
due giorni
due ore sole avevo
per poterti abbracciare con gli occhi.
Non sapevo chi eri
cosa facevi durante il giorno
avevi una croce sul collo
ti guardavo e pensavo:
“Questo ragazzo ha un cuore d’oro”
ma non sorride mai;
recitavi il ruolo da adulto
ma non ti stava mica bene sai,
come un vestito da sposo troppo lungo e sformato sulle spalle,
provavo a farti ridere
ma sulla tua bocca neanche la bozza di una risata.
E poi eccola, eccola lì
la virgola che si disegnò all’improvviso sulle labbra
neanche il tempo di accorgermi quanto fosse bella
ché il cielo mi fece scoprire stolta e inadeguata.
Per la prima volta ridesti
e io confusa trovai sollievo e imbarazzo
perché certo e scanzonato pensasti
“Questa è pazza!”.
Non ricordo quando stringesti le mie mani fredde
dita che si posavano nei palmi delle tue mani
fragili e pallide
annusavano il profumo della tua carne
scavavano nei solchi delle linee per rubare colore
e un istante della tua vita.
Un giorno
un’ora sola avevo
per farti sorridere
per vederti ridere.
Chissà se hai mai capito quanto amore nascondevo in quel gesto
un presente restituito al mittente
colmo di scherno.
(Charlie)
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Si tu vales bene est, ego valeo.
Felicità.
Uhm…ok. Ma cos’è la felicità?
Non cominciamo a canticchiare la canzone di Al Bano e Romina Power per piacere perché l’argomento è serio.
Dunque, se ci basiamo solo su quello che è riportato in questo post it senza considerare altre chincaglie – vi piace la parola chincaglia? – se ne ricava che la felicità non è qualcosa di strettamente personale, ma che dipende da qualcuno.
Esempio: sto bene se trascorro del tempo col mio/a migliore amico/a, con i miei nonni, con mia sorella/fratello, col mio compagno/a, marito/moglie, fidanzato/a, (o amante per chi ce l’ha) e quindi sono felice. Sto bene se la persona, o le persone, che ho accanto mi fanno sentire accolta, che ci tengono alla mia salute, alla mia compagnia, al mio benessere. E quindi sono felice.
Sto bene se ho molti followers, se mi cercano sui social, se chattano con me, condividono. Alias sono felice.
Sto bene se faccio un lavoro che mi piace, che mi soddisfa e mi realizza. Ergo, sono felice.
Tutti esempi di felicità legata ad un soggetto esterno al proprio sé. Perché dico questo? Perché se si considera la felicità come caratterizzata in questo post it, vuol dire non tenere in conto che la felicità ha altri colori, altre forme e altri suoni.
Ascolto un CD di Carmen Consoli. Mi piace. Gradisco il testo delle sue canzoni, la musica, il mood, le immagini che mi evoca. Sono felice.
Acquisto del terriccio e vasi per piante, ripulisco il giardino dalle erbacce per conferirgli un aspetto più decoroso, utilizzo le cesoie per potare e annaffio. Il giardinaggio è un mio hobby. Mi piace. Sono felice quando mi immergo nel verde della natura.
Ho comprato i biglietti per visitare Machu Picchu, vivrei solo per viaggiare ed esplorare nuovi mondi e orizzonti perché mi fa stare bene. Sono felice.
Stamane mi sono recata in libreria per comperare l’ultimo libro dell’autore Tal dei Tali che ho intenzione di leggere, ho scambiato due chiacchiere con la commessa, mi ha sorriso, sono stata bene, ho con me il libro (che non è cosa da poco) e sono felice.
Dicembre 2023. Passeggio sulla spiaggia. Ho il mare di fronte e mi vien voglia di farmi un bagno. Mi spoglio e mi butto in acqua (anche se è gelata). Avevo voglia di farlo: sto bene. Sono felice.
Desidero andare a teatro, al cinema. Non c’è nessuno che mi accompagna (chissenefrega) ma, quando mi siedo tra le poltrone sono felice perché sto bene.
Potrei continuare in eterno con gli esempi. Morale della storia: serve davvero qualcuno per essere felici?
Ora, una definizione della felicità vera e propria non la so dare perché è un concetto (oltre ad essere uno stato d’animo) molto soggettivo, però più vado avanti e più mi convinco che non esiste una felicità oggettiva ma tante felicità soggettive, e gran parte di queste felicità hanno un denominatore comune: la presenza di qualcuno.
Mo’ (dal latino mox che vuol dire ambress ambress) chi è questo qualcuno non è dato saperlo. Diamo un occhio al post it.
“Felicità è sapere che “qualcuno” ti sta cercando e ti troverà”.
A me me pare ‘na minaccia, stile “Io vi troverò” di Pierre Morel del 2008 con Liam Neeson (lo stalking di tutti i meme che circolano su internet, pe’ favve capì). Una cosa è certa: se è il postino che mi viene a notificare una multa, o l’Ufficiale giudiziario che se ne viene con una citazione a giudizio o un’ingiunzione di pagamento… io nun ce sto eh! Non abito in Italia e in nessun altro posto del mondo. Sono apolide.
Qualcuno può farmi notare “scusa, c’è scritto felicità quindi non sono messaggeri di cattive notizie” e io ribatto “la felicità è di chi mi sta a cerca’, no la mia”. No, no… nun me fido. E poi c’è scritto “nascondino”. NA-SCON-DI-NO. Che nasconde ‘sto tizio che mi viene a cerca’? Che vo’? Il mio Principe Azzurro è latitante da anni (in realtà è morto, ma questo è un altro paio di maniche).
Ecco, il Principe Azzurro. E qui si apre un’altra bella storia, o favola. Cosa vi piace di più? (Un giorno vi racconterò la fiaba del demente travestito da Scream, oggi no però).
Se c’è una cosa che non racconterei mai alle mie figlie sono le favole. Rimbambiscono.
Mi dispiace davvero tanto scrivere questa cosa perché quando ero piccola a raccontarmi le favole era mia nonna. Erano delle favole bellissime, la mia preferita era quella della Principessa Ribelle. Diceva sempre che le somigliavo molto. Ricordo che era la favola che mi facevo raccontare più spesso. Mi è rimasta impressa nella memoria un’immagine di questa Principessa che scendeva le scale col vestito da sposa tutto stracciato mentre si affaccendava a mettere da parte della legna per l’inverno. Era caduta in miseria perché, ovviamente, essendo una ribelle, si era ribellata al padre che aveva deciso per lei una vita che non le piaceva, e quindi l’aveva cacciata dal castello e doveva trovare il modo di sopravvivere. Come tutte le favole, anche questa aveva il suo bel lieto fine (la Principessa che incontra il Principe Azzurro che poi la sposa) e la protagonista si riconciliava con la famiglia.
Non ho mai capito se la fiaba era una di quelle favole “preconfezionate” alla Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola, oppure se mia nonna si divertiva a inventarle (mi sta venendo in mente un ricordo, ma è meglio che lo scaccio prima che diventi troppo melodrammatica).
Mia nonna era una romanticona. Le piacevano tanto le favole. Guardava con passione La bella addormentata nel bosco (avevo la videocassetta) ed era attenta a tutti i dettagli. Avesse avuto possibilità economiche ai suoi tempi sarebbe diventata una bravissima autrice di storie per bambini.
Comunque.
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“Non è difficile credere in Dio quando si è bambini. La religione è una fiaba abbastanza semplice” (cit. da Un giorno tutto questo sarà tuo di Lidia Ravera, ed. Bompiani).
C’è una relazione tra la religione e le favole? Penso che le religioni (tutte le religioni) siano delle grosse ca…volate. Non esiste un Dio buono e un Dio cattivo. Non esiste nessun Dio. Se Dio esistesse non ci sarebbe tanto odio sulla Terra, che ogni giorno accresce sempre più attraverso le guerre, i femminicidi, gli stupri, assalto ai medici nei nosocomi e adesso anche i parricidi (mamme e papà occhio quando andate a letto, i vostri figli potrebbero essere degli efferati killer. Post scriptum: cioè vi rendete conto? Al posto della buonanotte tra genitori e figli, qua ora bisogna andare a letto con le armi sottocoperta per difendersi da eventuali aggressioni del sangue del proprio sangue).
Dio esiste? (domanda).
Se il Padreterno esistesse da uno stupro non nascerebbe un bambino. Quello è odio, violenza, sopraffazione, dominio. Male. Non è amore. Secondo i precetti della religione (quella cattolica), il concepimento avviene quando c’è amore, ergo siccome in uno stupro non può MAI esserci amore, Dio non esiste (se capita che spunti un esserino è per una questione puramente biologica).
Se Dio esistesse non ci sarebbero situazioni difficili in talune famiglie (bambini con tumori e altre malattie che colpiscono non solo gli infanti ma anche gli adulti), non ci sarebbe tanto dolore (sia fisico che emotivo) e tante altre situazioni che non vi sto ad elencare altrimenti famo notte.
Dire che Dio esiste è come dire “credo nel destino” (quindi che famo? Aspettiamo il miracolo di San Gennaro?). Stiamo tutti in attesa (in attesa di che, poi? Mi ci metto pure io nel girone di quelli seduti nella sala d’attesa) come se aspettassimo che davvero la felicità ci piova dal cielo, ma non è così che funziona. Se uno non si alza e se la va a prendere da solo la felicità (e/o non se la costruisce con le proprie mani) allora campa cavallo che l’erba cresce! Qua state tutti ad aspetta’ a Dio: aspetto qualcuno, aspetto un lavoro, aspetto un miracolo, aspetto il Principe Azzurro o la Principessa sul pi….. (apro parentesi: per tornare al discorso di prima, se Dio esistesse farebbe sì che anche due persone simili si incontrassero per scrivere una bella storia d’amore senza divorzi, senza separazioni, mandate a fare in… capo al mondo belle gite turistiche in un posto super conosciutissimo e sovraffollato tipo bus urbani o metro cittadine dove non respiri più per quanto stai stretto, circondato da puzze. Chiudo parentesi).
Postilla per i credenti.
“A me il sesso mi dà l’urto di vomito. Il fatto stesso che per fare sesso maneggi quella parte di te e della tipa che sta con te da cui rifluiscono i materiali di scarto del corpo, piscio escrementi sperma mestruo… il fatto che a nessuno sia venuto in mente di separare il piacere dalle funzioni del ricambio, di sistemare gli organi addetti al godimento in una sezione delicata e profumata della persona umana, è la prova dello scellerato senso dell’umorismo di Dio” (cit. di Lidia Ravera, ibidem ut supra).
Dopo questo “dolce” ma realistico pensiero, credo proprio che la scrivente si asterrà dal fare sesso per i prossimi dieci anni (fa senso eh? Fa senso visto così, non avevo mai considerato questa cosa sotto questo punto di vista che poi, perdonatemi la volgarità, non si tratta solo di maneggiare quegli organi ma anche di – lo dico sottovoce, ziiiiitto, zitto, zitto – far combaciare gli strumenti indispensabili al godimento e al concepimento); e comunque questo a riprova che se Dio esiste ha davvero un sarcastico senso dell’umorismo (ribadisco e sottolineo: la felicità è la sua che si diverte a prenderci in giro, sempre nell'ipotesi che esista sul serio uno sceneggiatore così).
In sintesi (avviciniamoci al finale che è meglio va’): non so cosa sia la felicità, ognuno dà una definizione personale, ognuno vede le cose per quello che è o per come le sente; Isabel Allende dice “non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo” ma, per quelli che vogliono approfondire l’argomento, consiglio di leggere “Il tempo e la felicità” di Luciano De Crescenzo. Troverete ottimi spunti e ottime riflessioni (e una piacevolissima compagnia). Tenete bene a mente che il Maestro vi intratterrà con questo e tanti altri argomenti non alla maniera stupida e delirante della sottoscritta ma con garbo, eleganza, dolcezza, raffinatezza e anche con una dose di genuino umorismo di cui solo un grande uomo come lui era capace.
A proposito, in tema di religione lui non era né credente né agnostico, era sperante. Sperava, appunto, che ci fosse qualcosa (e Qualcuno) dopo la vita. Chissà se le sue speranze hanno poi trovato riscontro…
E, mi raccomando, non andate appresso alle favole.
C’era una volta un demente travestito da Scream…
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Otto storie, otto personaggi che si rincorrono e si intrecciano l’un l’altro in una vorticosa danza dell’eros che comincia dove finisce sino a trascinarsi all’infinito.
È il capolavoro teatrale di Arthur Schnitzler, Girotondo, rappresentato per la prima volta nel 1920 dopo la fine della grande guerra che suscitò grande clamore e scandalo per il cinismo con cui vengono rappresentati i rapporti tra cinque uomini e altrettante donne uniti da un filo comune: il sesso. Bollato all’epoca come pornografico, e per ciò soggetto a procedimento giudiziario, Girotondo è una commedia resa attuale dal tono drammaturgico di Schnitzler, dal suo disincanto spinto ai limiti del virtuosismo, dall’ironia che sconfina nell’amarezza che disvela la fallacia delle norme morali dominanti nella società viennese del tempo e, aggiungiamo, di quello contemporaneo. continua a leggere