Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
Guy ed Elodie s’incontrano per caso su un taxi. Lui è un notaio, figlio di notaio e nipote di un notaio. Sposato, due figli, una vita agiata e tranquilla. Forse fin troppo tranquilla. Lei, libera come il vento, di mestiere fa la tassista.
Lui è grigio, lei è rosso. Rosso come il cappotto che indossa e che apre e chiude le pagine del libro, rosso come la copertina del libro lasciato – apposta? – sul sedile posteriore del taxi, Il Gioco, e che stuzzica la curiosità di Guy che, nella fretta di scendere, lo raccoglie assieme ai documenti e al pâté di sua madre e, una volta a casa, lo legge tutto d’un fiato. Il Gioco lo conduce dritto spedito nelle braccia di Elodie che... continua a leggere
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Maddalena Bonsignore Scordìa, per tutti Malèna, è una bellissima donna siciliana sposata ad Antonino Scordìa partito per il fronte a combattere la guerra. Siamo a Castelcutò, un paese immaginario della Sicilia e il tempo in cui avvengono i fatti è quello della seconda guerra mondiale.
Malèna è un film di Giuseppe Tornatore del 2000, pellicola che lanciò Monica Bellucci, nel ruolo della protagonista, nel panorama delle attrici internazionali, e forse per questo l’opera più nota della modella/attrice umbra. E non solo.
È indubbio che la pellicola di Tornatore mette in risalto le armoniose curve e la perfezione delle linee del corpo della Bellucci la quale, a doti fisiche, non è pari a nessun altra donna (ma questo è solo un parere di chi scrive, da ritenersi quale giudizio meramente soggettivo e non universale), tuttavia non ci occuperemo di fare lo scanner alla bella Monica – anche perché il suo corpo parla da solo e già è stato detto tanto – ma di analizzare quelli che sono i veri aspetti del lungometraggio, messi in secondo piano a causa della esondante bellezza della Bellucci che offusca i messaggi contenuti nel film.
Dunque, c’è questa donna. Sola, perché il marito è partito per la guerra. Bellissima e desiderata da tutti gli uomini del paese, ragazzini compresi e alle prese con le prime turbe ormonali dell’adolescenza.
Ci sono due fattori che giocano a sfavore di Malèna (molto a sfavore): il fatto di essere una donna e di essere anche tanto, troppo, molto bella. La sua bellezza, più che una dote, è una disgrazia. Tutte le donne di Castelcutò la invidiano e ne sono gelose, e l’invidia, si sa, rende le persone molto cattive per non dire malvage. L’invidia genera anche pettegolezzo oltre che cattiveria, e infatti la bella Malèna non ha rapporti con nessuno perché nessuna vuol farsela amica (stupidità mista a ignoranza) scegliendo la strada più semplice che è quella di sparlarle dietro le spalle ogni volta che attraversa il paese per sbrigare le commissioni. La donna vive quindi una solitudine totale: non ha il marito accanto, non ha amiche, né sorelle e fratelli, ogni tanto va a far visita al padre anziano per portargli la spesa o preparargli un pasto caldo.
La solitudine diventa una terza disgrazia per Malèna, il peso di essa si aggrava e diventa condanna perché inflitta dalle sue concittadine che, con le loro malelingue, le fanno terra bruciata intorno. A lungo andare il pettegolezzo diventa diffamazione e il padre di Malèna, stanco delle continue voci che girano sul conto della figlia, decide di interrompere ogni rapporto con lei.
Ma le sventure per la donna non finiscono qui. Dal fronte giunge la notizia che Antonino è morto in guerra e con i bombardamenti in atto, tra le tante vittime, ci resta secco pure il padre di Malèna.
Rimasta sola e senza risorse, la donna comprende, suo malgrado, che l’unica maniera per tirare avanti è quella di dare concretezza alle parole che sino a quel momento erano solo dicerie sulla sua persona: complice la sua bellezza, si prostituisce.
Ancor prima che accade questo avvenimento Malèna viene persino violentata dal suo avvocato che l’aveva difesa in una causa (da lei vinta) per presunto adulterio (occorre dire che Malèna resta sempre fedele al marito, conduce una vita ritirata e cammina per strada sempre ad occhi bassi per non alimentare fantasie negli uomini). Tutto quello che si vede nel film – e che, ad un occhio scrupoloso, dovrebbe fungere solo da contorno come l’insalata che accompagna le portate nei piatti – è solo un prodotto di fantasticherie, immaginazioni, sogni, desideri, affanni, di Renato (il ragazzino per cui Malèna diventa una vera ossessione) e poi del resto della truppa appartenente al sesso adulto, tant’è che quando la donna arriva a offrirsi realmente agli uomini del suo paese per campare (mi vien da dire al gruppo dei pervertiti, ma sarebbe un pregiudizio il mio, oltre che un’offesa gratuita a gente che non ha nessuna colpa, qui comunque il discorso si allunga quindi lasciamo sta’) le scene dove compare “più scoperta” cominciano a ridursi.
È infatti sul volgere del finale che vengono a galla i messaggi lanciati dal film.
Innanzitutto vorrei far notare quanto sia agghiacciante la scena in cui le compaesane di Malèna la trascinano in piazza per picchiarla e pestarla a sangue con un odio e una violenza esasperati sino all’inverosimile. Unico scopo, se così vogliamo definirlo per quelli che erano i tempi della guerra anche se la violenza non dovrebbe mai avere una giustificazione, dovrebbe essere la rabbia di queste donne nei confronti di una concittadina che ha tradito collaborando con i tedeschi ma queste, più che per il già specificato scopo che utilizzano come esimente, si avventano su di lei come squali per sfogare le loro frustrazioni, l’invidia e la gelosia repressa per tutto il tempo. Arrivano persino ad umiliarla tagliandole i capelli tra le lacrime e i singhiozzi di Malèna che, totalmente indifesa, non sa come sfogare la propria disperazione. Non dice nulla, come ha sempre fatto. Urla soltanto. Urla il proprio dolore, sporca, insanguinata, col moccio al naso, le ferite al viso, le ginocchia sbucciate e coi capelli rasati. Guarda ad una ad una le sue carnefici girando in tondo al cerchio che le fa da muro. Col suo grido è come se dicesse “Cosa volete da me? Non è colpa mia se questa bellezza mi è stata donata, non è colpa mia se i vostri uomini mi desiderano, io non ho mai fatto nulla con loro, non li ho mai provocati, non ci ho mai parlato. Se l’ho fatto adesso, l’ho fatto perché mi era necessario per vivere. Sono una donna e sono sola perché sono rimasta vedova e orfana, non ho mai avuto l’appoggio di nessuna di voi presenti. Perché tanto odio?”
Dopo questo spiacevole episodio Malèna è costretta a fuggire a Messina, consapevole che Castelcutrò non avrà più nulla da darle poiché ha perso tutto (dignità, reputazione, denaro), soprattutto ora che la guerra è finita.
A questo punto accade qualcosa che rovescia le carte in tavola. Antonino, il marito di Malèna, da tutti ritenuto morto fa ritorno al suo paese. La prima cosa che fa è tornare a casa dalla moglie ma, con sgomento, si accorge che la casa coniugale è stata occupata dagli sfollati di guerra, e che Malèna è dovuta scappar via per cercare fortuna a Messina dato che a Castelcutrò tutti – persino chi prima la anelava sognandola notte e giorno – le hanno voltato le spalle. Antonino apprende tutto questo da una lettera che gli fa avere Renato, il quale non è mai riuscito a togliersi Malèna dalla testa, ed è l’unico di tutti gli abitanti di Castelcutrò che ha compreso le sventure che la povera donna ha dovuto subire dalla gente per via della sua bellezza. L’uomo decide così di partire anche lui per Messina per ricongiungersi alla moglie salvo fare ritorno, un anno dopo, assieme a Malèna e di attraversare con lei a braccetto, e a testa alta (lui solo perché lei mantiene sempre gli occhi bassi), le stesse strade e le stesse vie che la donna percorreva tutti i giorni da sola sotto gli sguardi degli uomini affamati del suo corpo e delle donne che la vituperavano.
Adesso, agli occhi di queste ultime, Malèna è un’altra persona. Quando si reca al mercato le donne la salutano e le regalano persino gli abiti e il cibo, nonostante Malèna voglia pagarle. Sono loro le prime a rivolgerle la parole e a dirle “buongiorno”, e con grande sorpresa Malèna risponde al saluto con “buongiorno” (queste signore sono le stesse che l’avevano pestata a sangue).
L’intera vicenda di Malèna viene raccontata dal giovane Renato, che solo alla fine del film avrà modo di interagire per la prima e unica volta con la donna aiutandola a raccogliere le arance che le erano scivolate dalla borsa della spesa. La scena finale è quella di Malèna che si allontana di spalle per far ritorno a casa, reintegrata nella sua dignità e nella comunità di Castelcutrò.
Per essere una pellicola del 2000, il film di Tornatore presenta molti tratti patriarcali. In primo luogo la figura della Bellucci (messa tanto in risalto) suggerisce che la donna sia solo un oggetto (e non un soggetto) da desiderare e da usare a proprio piacimento. In secondo luogo che il compito della donna sia solo quello di essere una brava e devota moglie che aspetta il proprio uomo a casa, che deve occuparsi solo di cucinare, rassettare la casa, fare la spesa e, al massimo, andare a far visita ai propri parenti. Inoltre deve camminare a testa bassa (come se camminare a testa alta possa recare offesa a qualcuno) e deve vestirsi in modo tale da non attirare occhiate e sguardi indiscreti. In terzo ed ultimo luogo non è bene che una donna viva da sola, qualunque siano le ragioni anche quelle che esulano dalla volontà di quest’ultima, tanto più se è bella e attira il maschio come la vista del sangue attira gli squali.
Due scene mi fanno venire l’orticaria: il pestaggio di Malèna in pubblico sotto l’indifferenza di tutti, uomini compresi (qui sì che scatta la perversione, a differenza di prima, e la prevaricazione) e la considerazione negativa che si aveva di questa donna che diventa più che positiva quando la si vede con un uomo al suo fianco.
Non mi voglio dilungare troppo sul tema (specie sull’ultimo punto), e non perché poi mi tacciano di fare apologia sulle donne e sul femminismo in generale, non mi va di fare la maestrina, né la sapientona, né la vittima (pure perché non mi sento di essere nessuna delle tre). Voglio solo far riflettere su un argomento che, secondo me, andrebbe spogliato di tanto retaggio che ci trasciniamo dietro da secoli (scusate ma voi le cose vecchie – dove per vecchie intendo le cose che non funzionano più, da non confonderle con gli oggetti a cui siamo legati per un valore affettivo – le buttate oppure ve le conservate come cimeli? Lo stesso procedimento dobbiamo utilizzarlo per quanto concerne i rapporti sociali. Si butta via ciò che non è più utile per passare al nuovo che frutterà più del suo predecessore. Non avete tutti i cellulari di nuova generazione? E perché riuscite a sbarazzarvi del cellulare ogni settimana e non riuscite a disfarvi di certi preconcetti e pregiudizi che vi danno un’aria da vetusti bacucchi? Stesso discorso valga per le macchine, la playstation, il pc e tutte le altre diavolerie informatiche).
Se ci pensate, alla fin dei conti, oggetti e pensieri sono la stessa cosa perché si possono cambiare. E quando cambi una cosa non la cambi mai con un’altra peggiore, ma sempre con un’altra cosa migliore che possa darti una maggiore funzionalità e utilità.
Date retta a una povera scema: ogni tanto fate cambiare aria al vostro cervello. Imparate ad allenarlo.
È più importante scolpire il cervello anziché i muscoli del corpo (o della faccia) che col tempo avvizziscono.
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Processo per stupro è uno spettacolo anomalo perché si ha l’impressione di non assistere ad uno spettacolo ma ad un processo. Nelle note di regia si legge che l’intento è quello di diventare testimone di un linguaggio adoperato quarant’anni fa in un processo penale e di reinventarlo attraverso la parola recitata. Ho come l’impressione però che non sia solo questo…sbaglio, o c’è dell’altro?
C: Sicuramente oltre al linguaggio l’intento è continuare a provocare rispetto all’argomento, perché tanti passi avanti sono stati fatti anche se non abbastanza. Innanzitutto si parla di femminismo perché questo processo, quarant’anni fa, fu aperto per la prima volta alle telecamere e fu clamoroso perché parteciparono associazioni di donne che volevano essere considerate parte civile. Allora io farei un distinguo tra la femminista e il maschilista: la femminista è colei che si batte per avere eguali diritti, il maschilista è colui che invece vuole prevaricare. Ecco su questi due principi si batte l’esercizio del potere, non solo dal punto di vista umano della donna, ma anche dei diritti. Quindi è una provocazione a tutto tondo.
R: Ѐ' qualcos’altro nella misura in cui chi accetta l’evocazione del teatro come una realtà. La presenza del teatro sta nella sua attualità, e succede/accade davanti allo spettatore. Miracolosamente la testimonianza può spogliarsi, diventa ancor più viva grazie al teatro. continua a leggere
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La legge è uguale per tutti.
È questo ciò che si legge appena si mette piede nel foyer della seconda balconata del Teatro Eliseo, allestita a mo’ di aula di tribunale. Tre tavoli, due disposti sulla sinistra, uno disposto sulla destra.
I primi due per gli avvocati, uno per gli imputati, l’altra per la parte lesa. L’altro, quello sulla destra, per il Presidente del Collegio giudicante che presiederà il processo. Un processo per stupro.
Perché questo non è uno spettacolo. continua a leggere