Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
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Fabiano Massimi è uno degli autori che bisogna leggere almeno una volta nella vita.
Non solo per lo stile adoperato nella scrittura, ma soprattutto per la sua competenza e preparazione nel saper raccontare uno dei periodi più bui e tragici della Storia, che hanno come sfondo gli anni dell’ascesa del nazismo e del fascismo. Mai come il tempo che stiamo vivendo c’è più che mai la necessità di narrare gli ignominiosi avvenimenti che si sono succeduti in quegli anni di cui, purtroppo, si ode ancora forte l’eco e i cui resti non sono stati cancellati– come si vuol credere o come si è indotti a far credere – ma, anzi sono prorompenti e rinascenti come ceneri di una fenice.
Le Furie di Venezia è il terzo libro della serie del commissario Sigfried Sauer (i primi due sono L’ Angelo di Monaco e I Demoni di Berlino) il cui plot è incentrato sulla figura di Ida Dalser, la prima legittima moglie del Duce.
Il romanzo si apre nell’anno 1934 dove rivediamo Sauer, Mutti, ovvero Helmut Forster nonché collaboratore del primo, affiancati da Sandor, un poliziotto ungherese, che si trovano a Venezia per sventare un’alleanza tra Mussolini e Hitler. I due dittatori si incontreranno a piazza San Marco in mezzo a una folla di camicie nere per sancire la coalizione tra l’Italia e la Germania. Purtroppo le cose non vanno secondo i piani prestabiliti, così i tre, aiutati da un italiano esperto nel falsificare i documenti, Livio Sarpi (che si scoprirà amico dei fascisti) escogitano un’altra occasione per fermare quella che si rivelerà negli anni una politica scellerata e sciagurata per molte vite portata avanti da un esaltato; ma è nel corso di una serata che nel “pedinare” Mussolini per la laguna di Venezia scopriranno che il Duce nasconde un segreto che, se venisse svelato, potrebbe davvero cambiare le sorti del Paese. Nell’isola di San Clemente insiste un istituto, originariamente un monastero ora un manicomio femminile, dove è rinchiusa Ida Dalser per ordine del Duce. La donna afferma di essere l’unica e la prima moglie legittima del podestà e di aver avuto dallo stesso un figlio che porta il suo stesso nome, Benito Albino Mussolini, successivamente riconosciuto dal padre. Come naturale, il Regime non vuole che la storia venga a galla, per questo motivo insabbia qualsiasi prova o documento che possa far luce su questo aspetto privato del capo del Governo. Sigfried, aiutato da Mutti, Sandor e Johanna Tegel – poliziotta innamorata di Sauer dai tempi dell’incendio del Reichstag – infiltratasi nel manicomio come infermiera, cercheranno di far evadere Ida senza successo con la promessa di evitare a Benito Albino Mussolini le stesse sorti della madre.
La seconda parte del libro si apre nel 1942. Siamo a Milano dove Fausto Armeni, commissario di polizia antifascista e amico di un giornalista del Corriere della Sera, Alberto Graf anche lui antifascista, conduce la sua vita senza tante speranze sul proprio futuro e su quello del Paese. La moglie, Margherita, è ricoverata presso un istituto psichiatrico a Mombello e Armeni non fa altro che scandire le proprie giornate dividendosi tra il lavoro e le visite alla moglie. Durante una di queste succede un fatto inaspettato quanto strano: un paziente sembra essere riuscito a sfuggire alla sorveglianza dei medici e degli infermieri. Si tratta di un ragazzo di ventisette anni che sarà lo stesso Fausto a rinvenire nascosto e mezzo svenuto tra i cespugli del parco del manicomio, un paziente su cui è puntata la massima attenzione di tutto l’istituto – primario per primo –. Il ragazzo è nientedimeno che Albino, quell’Albino, cui Sauer si era fatto carico della promessa a sua madre di risparmiargli lo stesso destino. Il commissario dai capelli biondi e gli occhi cerulei farà tappa anche a Milano dove, insieme a Fausto, a Emilia (segretaria di quest’ultimo) e ai suoi compari (Mutti e Sandor) tra mille peripezie anche qui come a Venezia, faranno di tutto per salvare la vita ad Albino.
È una sensazione strana quella con cui si resta addosso al termine della lettura dei libri di Fabiano Massimi, un’emozione (comune a tutti i suoi romanzi) che non so definire. Ha il sapore dell’amarezza, della sconfitta, dell’impotenza, ma anche della tenerezza. Non sapendo che nome dare a quest’emozione mi viene da dire solo “è molto bello”. E quando qualcosa è bello vuol dire che questo qualcosa ha lasciato un segno.
Quello di Fabiano Massimi è un genere storico, non sbaglio di molto se lo consideriamo il Ken Follett della letteratura italiana solo che, a differenza di quest’ultimo dove vengono dedicate numerose pagine alle passioni, in Massimi questo non avviene concentrato più sulle descrizioni dei luoghi, delle persone, dei fatti. Anche nelle sue opere, come Follett, i sentimenti e gli stati d’animo giocano un ruolo fondamentale, ed è altrettanto bello come riesca a far entrare in empatia il lettore col personaggio attraverso le descrizioni di ciò che rumina l’animo di un personaggio con ciò che lo circonda, sia esso un paesaggio, un oggetto o un ricordo. Sono pochi gli scrittori che riescono a fa questo, e credo che in ciò stia il segreto del successo di questo autore che si sta conquistando (meritatamente) la platea internazionale.
Più di ogni altra cosa mi è rimasta addosso la sensazione di sentirmi braccata, di avvertire il senso dominante e di oppressione del Regime, il controllo smisurato su ogni parola, ogni pensiero, ogni azione, ogni respiro, ogni battito di cuore; e mi sono domandata cos’è che spinge le persone ad osannare (e desiderare!) gente con una mentalità egocentrica, totalmente slegata dalla realtà, che non tiene conto delle esigenze del prossimo e delle diversità (da intendersi in senso lato, come moltitudine di aspetti non come limite o disabilità) e che non accetta né sopporta chi è altro da sé tanto da sopprimerlo o bandirlo.
Non sto affermando che non debbano esserci limiti, ok alle regole ed è giusto che vengano rispettate, ma in un’ottica di equilibrio e di misura senza strafare, anche per ciò che concerne la libertà di una persona.
Come è bene raccontare per non dimenticare, per meglio affrontare le problematiche in un’ottica di confronto e di condivisione senza generare caos, odio e anarchia.
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Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza.
Sono le parole del filosofo John Searle da cui Gianrico Carofiglio prende spunto per parlare del suo ultimo libro edito da Laterza (pp. 192, prezzo €. 15,00), Con parole precise, breviario di scrittura civile. Un testo che riprende il tema lanciato nel 2010 con La manomissione delle parole sull’importanza del linguaggio in una società civile.
L’autore è perlopiù conosciuto dal pubblico come scrittore di romanzi ma, come spiegato dallo stesso Carofiglio, in occasione della presentazione del libro, le ragioni che lo hanno spinto a scrivere questo breviario sono due: una personale e l’altra politica (legate indissolubilmente tra loro). continua a leggere