Charlie Brown

"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)


So’ dettagli


Famiglia di Tommaso Medugno ²


Non è facile dirvi quanto sto per dirvi. No, non è per niente facile.

Ho scoperto di avere una malattia, grave, e a quanto pare anche cronica e non curabile.

Ho la prosopagnosia¹.

Le prime avvisaglie le ho avute un anno fa, mese più mese meno. Un piccolo disturbo ma, proprio perché era un disturbo, mi ha dato molto fastidio perché ha dis-turbato la mia giornata (dal latino disturbare, composto dal prefisso dis e dal verbo turbare: disperdere. Disperdere, sempre dal latino: disperdo, disperdis, disperdĭdi, dispersum, disperdĕre: dissipare, mandare in rovina).

Nonostante la cosa mi stesse scombussolando, decisi comunque di non darle peso. Una reazione comune a tutte le malattie, uno status psicologico che serve da scudo ad ognuno di noi: cancellare il male, far finta di non vederlo o di non sentirlo per scongiurare il rischio che prenda il sopravvento sulla paura (una banale difesa per esorcizzarla).

Accade poi che “il fattaccio” si ripresenta, e a quel punto comincio ad essere assalita dai dubbi.

Per dovere di completezza aggiungo che soffro di un’altra malattia – forse pure peggiore della prima – che è “la giustifica”, cioè la tendenza a giustificare sempre e nonostante tutto chi ho dall’altra parte.

Dove vuoi arrivare? Domanda che vi starete ponendo.

Ora ve lo dico, ci proverò, è molto complesso come discorso e non vi piacerà.

Molti di voi ricorderanno la querelle che c’era stata riguardo alla nomina di Luca De Fusco come Direttore della Fondazione Teatro di Roma che amministra e gestisce quattro tra i più importanti teatri della Capitale: il Teatro Argentina, il Teatro India, Il Teatro Torlonia e il Teatro Valle “Franca Valeri”. A suo tempo, questa nomina avvenne in maniera non proprio regolare per via – come ormai succede spesso, purtroppo, in tutte le questioni – di un’ingerenza dell’attuale Governo che spingeva per il nome di De Fusco su una rosa di 40 candidati a copertura del ruolo.

Senza entrare troppo nel merito (altrimenti ci dilungheremmo su un discorso prettamente politico perché, in sostanza, fu questo il nocciolo dello “scontro”, ridurre il tutto ad una questione politica perdendo di vista quello che era ed è il tema fondamentale, ossia continuare a garantire l’esistenza e la possibilità da parte dell’utenza di usufruire del più grosso polo culturale ed intellettuale della città) il punto fu questo: la nomina di De Fusco avvenne scavalcando decisioni e figure che nel CDA erano necessarie per la sua approvazione.

Di fronte a questa situazione scorretta un folto numero di attori, giornalisti, registi, uffici stampa, scrittori, di orientamento politico opposto al Governo, insorsero con lettere, proteste, petizioni e sit-in davanti al Teatro Argentina. Tra questi artisti c’erano persone che il pubblico conosce e che, nel corso degli anni, ha imparato ad apprezzarne le doti. Il talento, però, non è l’unico aspetto per cui vengono apprezzati e seguiti; vengono apprezzati anche per il loro modo di essere, di pensare, di porsi e di dire determinate cose.

Se a me piace un artista è perché con quell’artista mi trovo a condividere molto del suo modo di pensare, e perché trovo che con me ha molte affinità quasi come se fosse il mio specchio. Non è un caso quando, infatti, ci troviamo a parlare con qualcuno e gli diciamo: «Mi piace il tuo modo di vedere le cose perché rispecchia molto quanto penso sull’argomento», ragion per cui abbiamo anche piacere a frequentarlo.

Gli artisti – e quando dico “artisti” la definizione è da ritenersi estensiva che comprende attori, scrittori, cantanti, presentatori, comici, ballerini, registi, sceneggiatori, autori, compositori, eccetera – sono persone. E con le persone, anche quando non vuoi, si arriva a un punto di rottura. Soprattutto quando vieni preso in giro.

Poco prima accennavo dicendo che questo sarebbe stato un discorso molto complesso, specialmente non gradevole perché, disquisendo sul tema, dobbiamo prendere in considerazione una componente oggettiva e una componente soggettiva.

La componente oggettiva tira in ballo due aspetti essenziali che, ad avviso di chi scrive, sono di elevata importanza nella sfera di un individuo e nelle sue relazioni sociali: verità e coerenza.

La componente soggettiva assume connotati più dolorosi perché va ad incidere nella sfera più intima, più empatica e più sensibile della persona, che è la parte emotiva. Per componente soggettiva non mi riferisco solo alla sensibilità dell’utente, ma anche alla sensibilità del suo beniamino che si trova ad avere una grossa responsabilità nei suoi confronti e a metterci la faccia in tutto quello che fa e che dice.

Poco gradevole perché la verità non piace a nessuno. Tutti la pretendiamo, tutti la inneggiamo tanto quanto, al contrario, tutti la scansano e se l’acquattano, come se dice a Roma (perdonate lo slang ma vi parlo come si parla a un amico senza giri di parole, più comunemente conosciuta come la lingua del parla come magni).

E veniamo al cuore dell’argomento.

Superato, alla bell’e meglio, il patatrac della nomina di De Fusco – per chi non lo sapesse comunque, dunque e dovunque, è lui che dirige la Fondazione Teatro di Roma – un bel giorno mi alzo, prendo il caffè, scorro le notizie dell’ultim’ora e do un’occhiata alla stagione teatrale 2024/2025 del Teatro di Roma. Cosa scopro secondo voi?

Che una delle firme dei dissenzienti alla nomina di De Fusco al ruolo di direttore è in cartellone.

Immaginate il mio stupore. La sorpresa (dell’ovetto kinder) è tanto brutta in quanto avevo una grande considerazione, nonché una grande ammirazione, per l’artista (che ho stolkerato per tutti i teatri d’Italia).

Occhio: in questo caso è un personaggio dello spettacolo ma queste “belle sorprese”, come dicevo poc’anzi, mi sono capitate e continuano a capitarmi con tantissimi altri artisti appartenenti ad altre categorie, tanto da crearmi una frattura grossa quanto villa Arcore, villa Briatore, villa Clooney, villa Pitt, villa Stallone e villa Totti tutte messe assieme.

È solo un esempio – o un dettaglio – ve ne potrei citare altri. Ma c’è un problema: non mi piace parlare male delle persone, non mi piace parlare male degli assenti (oddio, assenti… state tutto il giorno a chatta’ sui social, poi me lo spiegate come funzionano ‘sti aggeggi perché io non l’ho ancora capito), non mi piace parlar male delle persone in cui credo. Non mi piace parlare male del vicino, perché quel vicino potrei essere io.

Ok, sono imperfetta. Ho sbagliato. Ma nessuno dice: “Ho sbagliato”. Vorrei sentirlo dire ogni tanto, come lo dico io: «ho sbagliato».

Vorrei smettere di vedervi andare in giro per programmi, eventi, concerti, manifestazioni, festival, social (pe’ fratte, pure pe’ fratte perché c’annate pe’ fratte, e pure pe’ frappe perché bisogna pur nutrirsi), premi, conferenze stampa, congressi, università, cartelloni, talk show, meme show, fiere, per sentirvi dire quanto siete bravi, quanto siete belli, quanto siete boni, quanto siete grandi.

Vorrei che la smetteste di usare belle parole solo per magnificare il vostro ego, e che faceste qualcosa di più concreto, qualcosa che si vede, che dà valore, che dà vita, che dà senso a ciò che fate.

Vanno bene i concerti di beneficenza (dove finisce poi tutto il denaro raccolto resterà il Mister assoluto dei misteri), ma che non si fermi qui il vostro operato, vanno bene le manifestazioni in piazza per la lotta alla parità di genere, per dire stop al femminicidio, per dire no al precariato, per il riconoscimento del diritto all’eutanasia, all’aborto, alla sicurezza, alla salute… va bene anche parlare per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma il pensiero non si deve fermare alla parola altrimenti sono solo belle parole e basta, che servono come maschere per ingannare la gente e passare per persone fighe e perbene.

Da diversi mesi il nostro Paese è preda delle alluvioni per le violenti piogge. Invece di riempirvi le bocche con frasi a sostegno della solidarietà sui social e sui media, perché non andate a dare una mano alla povera gente a spalare il fango con le pale, i secchi, le sacche? Perché non vi recate nelle periferie delle città, nelle carceri, nei centri di recupero, per ascoltare le storie degli adolescenti e delle famiglie difficili e cercare di trovare insieme una soluzione per attenuare il problema della criminalità? Perché quando c’è da testimoniare un torto, salvare un canile, aiutare dando davvero da mangiare a un indigente vi voltate dall’altra parte? Perché non vi sporcate?

C’è un editore, un giovane editore, che è anche scrittore. Si chiama Nicola Pesce. La sua pagina Facebook conta più di 230mila followers (toh, visto che vi piacciono così tanto i social vi do un po’ di numeri, numeri buoni). È una delle esigue persone che merita veramente di essere seguito.

Lui non parla soltanto. Lui fa. Lui crede e si impegna in quello che fa. Caccia fuori i soldi di tasca sua, non li rincorre, non è interessato al denaro. Non è interessato alla fama. Non si concentra su se stesso. È aperto al mondo, alla natura, agli animali. Coltiva gentilezza, cura e attenzioni. Ascolta. Dà importanza alle persone perché vuol bene e ci tiene alle persone. Le rispetta.

Sono dettagli, ma i dettagli dicono molto di chi ci sta di fronte. I dettagli contano tantissimo perché sono gli unici strumenti che dicono la verità. Può essere un tono di voce, un’espressione del volto, un gesto, un colore, una frase, una parola.

Prestate

Attenzione

Ai

Dettagli.

Non sempre vanno di pari passo con la forma.

Non sono nessuno per dirvi come dovete comportarvi, e chiedo umilmente perdono a chi si è sentito chiamato in causa per essere stato “oggetto” di biasimo. Ho usato parole dure, me ne dispiaccio. Conosco il loro peso e la loro forza, so quanto possano far male.

Resta il fatto che se, casomai, dovesse capitare di incontrarci e non vi riconosco non è perché sono diventata pazza (quello è normale) o tutt’a un tratto maleducata. Sono malata, sono molto malata.

Ho la prosopagnosia.




¹Prosopagnosia, dal greco: πρόσωπον (“prosopon” faccia) e ἀγνωσία (agnosìa, non conoscenza, ignoranza)

² La foto a corredo compare sulla copertina del libro di Raymond Carver, Da dove sto chiamando e altri racconti edito da Minimumfax, edizione 2003.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 19/11/24

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Scarafaggi*


Nutro una profonda urticaria per i romanzi rosa. Chiariamolo: non c’è nulla di male ad essere romantici, ma con moderazione (come in tutte le cose).
Quando ero una adolescente il genere letterario da me prevalentemente letto era il genere rosa. Poi sono guarita, ma sono stata condizionata per un bel po’ di tempo. La ragione – non mi piace definirla colpa – è ascrivibile a mia nonna, la quale era molto affezionata alle favole di principi e principesse che la portavano ad essere una romanticona. O forse era il contrario. Le piacevano le favole perché era lei ad essere romantica. Vabbè, fatto sta che aver trascorso molto tempo con lei durante la mia infanzia ha comportato una crescita esponenziale della mia immaginazione. Non era possibile che il “mondo fuori” fosse diverso dal “mondo fantasticato”, ma soprattutto che il primo fosse molto cattivo.
Ascoltandola mentre mi raccontava le sue favole mi convincevo sempre di più che da qualche parte, al di là di quelle mura domestiche, ci fosse il Principe Azzurro ad attendermi. Dovevamo solo pazientare: lui doveva essere bravo ad aspettare che io crescessi, e io altrettanto brava ad aspettare che crescessi per poterlo incontrare.
Quella bambina poi è cresciuta e, con grande rammarico, ha scoperto che il mondo fuori non era affatto uguale al mondo fantastico dove la nonna la accompagnava quasi tutti i giorni per fare dei bellissimi e indimenticabili viaggi, e ci è rimasta male. Non sa se prendersela con quella nonna che l’aveva tanto amata, si sente un po’ ingannata. Poi conta fino a dieci, sospende il giudizio (epoché, dal greco έποχή, “sospensione”) sulla dolce e tenerissima donna anziana e arriva alla conclusione che la nonna non ha nessuna colpa. L’unica colpa che ha è quella di averla amata tantissimo. E quando si ama tanto capita di cadere vittima dell’errore.

Dalle favole siamo passate alle telenovele, e dalle telenovele ai romanzi d’amore.
A proposito di telenovele, ricordo ancora come fosse ieri che un pomeriggio costrinse me e le mie amichette a guardare assieme a lei l’ultima puntata di Topazio; lei era seduta sulla sua solita sdraio dietro di noi, e noi sedute a terra a gambe incrociate, in fila per due (era estate), tutte concentrate manco stessimo guardando Sanremo. Nelle sue intenzioni – e in particolar modo, per un maggiore senso di sicurezza dei nostri genitori – era meglio che fossimo tenute sotto la stretta sorveglianza del suo occhio vigile piuttosto che scorrazzare in giro per le strade e i vicoli del quartiere dove eravamo solite giocare all’aria aperta a nascondino, a campana, a un, due, tre, stella e via dicendo.
Per quanto riguarda i romanzi rosa (che lessi fino ai primissimi anni di università poi, come facevo notare, uscii dal coma) non menziono le autrici. Il perché lo scoprirete leggendo.
Nel corso degli anni ho collaborato con diverse testate giornalistiche cartacee e online. Tra le tante c’è quella con Leggere:Tutti, rivista di libri e letteratura. Ergo, un po’ per la mia patologia/dipendenza legata ai libri, un po’ per l’onere (e l’onore) di assolvere al compito di cercare spunti interessanti per stendere gli articoli, mi viene naturale curiosare tra gli argomenti che stuzzicano la mia attenzione.
Succede questo. Circa una dozzina di anni orsono mi capita di leggere un’intervista di una giornalista inglese in cui analizzava con una psicologa (che era anche autrice di libri) i pro e i contro dei romanzi rosa. La conclusione a cui si giunse era questa: questo genere di lettura fa più male che bene perché, in sostanza, illude le lettrici. Inutile dire che il tema aveva destato il mio interesse perché quanto affermato dall’autrice collimava con le mie stesse considerazioni. Coincidenza vuole che dopo pochi giorni mi trovo a seguire la presentazione del libro di un’autrice di romanzi “romance” in una libreria di Roma. Al termine, chiedo alla referente della penna – impegnata ad elargire autografi alle sue affezionatissime e numerose lettrici – se è possibile avere il suo contatto per poter svolgere un’intervista dato che in quel momento risultava impossibile interloquire di persona stante l’ora, l’impegno e la stanchezza profusa per le sue fan giulive. Lo ottengo, e quando mi accingo a predisporre le domande non riesco a trattenermi dall’infilare una provocazione che assomiglia molto a quella della giornalista inglese, solo posta con più garbo.
La destinataria, all’atto della ricezione, non la prende bene. Non mi insulta, ma dal tenore della risposta capisco che era suo desiderio farlo perché è piuttosto stizzita. Incasso la reiezione dell’intervista e tutto finisce lì. Tuttavia, seppur consapevole che la domanda pruriginosa l’avrebbe infastidita speravo nel colpo di scena, e cioè che alla mia provocazione rispondesse con la stessa provocazione, oppure zittendomi con una risposta arguta.
Non ho più avuto occasione di incontrare l’autrice (che ha sempre avuto un enorme riscontro di pubblico e continua ad averlo).
2024. Notizia di quattro/cinque mesi fa. Su uno dei più noti quotidiani italiani la famosa autrice, in una intervista, confessa lei stessa di scrivere “ciofeche”. Adopera proprio questa parola: ciofeca. Per chi non lo sapesse, “ciofeca” o “ciufeca” è, secondo l’enciclopedia Treccani, un etimo incerto, probabilmente di origine spagnola (dal termine chufa) che indica una mandorla amara per fare un’orzata; il nome invece deriverebbe dall’arabo safek e sta a significare una bevanda (vino o caffè) di pessimo sapore, broda, porcheria, schifezza. Non proprio una definizione di tutto rispetto, insomma.
Sorrido divertita. Non so se è l’età che dà maggiore consapevolezza ad un individuo o se al tempo la beccai in un momento poco adatto, comunque sia la prima cosa che penso è: “E io che ti ho chiesto tanti anni fa?”. Certo, non le domandai: “Carissima Signora, è vera questa cosa che i romanzi rosa fanno cagare, non sono utili a nessuno e, pertanto, visto che fa parte della cerchia degli autori romance anche ciò che scrive lei è da reputarsi come una vera e propria schifezza?”.
Nulla, nulla di tutto ciò. Mi limitai solo a domandarle se era d’accordo con le conclusioni giunte all’analisi dell’intervistatrice e della psicologa riguardo al genere letterario rosa (le avevo accennato a quell’articolo che lessi), e quali erano le sue opinioni al riguardo.
A distanza di anni non solo scopro che, in fondo in fondo, la mia non era una domanda sbagliata, ma qui (o all’epoca in cui si svolsero i fatti) se c’è qualcuno che “offende” o “aveva offeso”, quel qualcuno non fu la sottoscritta, anzi. Chi parla del proprio lavoro usando una terminologia dispregiativa è lo stesso soggetto che si sentì offesa. Affermare di scrivere ciofeche è come ammettere di essere un’autrice veramente scarsa.
Vorrei fare un appunto. Ho scritto “non so se al tempo la beccai in un momento poco adatto” perché è vero che la beccai, nel senso letterale del termine. Sebbene posi la domanda in modo educato, era tutto sommato una provocazione. In pratica è come chiedere ad un autore di gialli “ma perché scrive di morti ammazzati quando già siamo circondati da una cattiveria infinita? Non crede che così facendo contribuisce ad aumentare il tasso di criminalità?”, che può essere recepita come un’offesa, chiamiamola così, oppure un’accusa.
C’è una differenza tra le due cose, una grossa differenza. I detrattori reputeranno una apologia a favore dei giallisti quanto sto per dire.
Gli assassini esistono. I mostri esistono. Le vittime esistono. È un horror, un incubo a cui assistiamo tutti i santi giorni. Siamo bombardati dalla cronaca nera. Ci abbuffano di omicidi, violenze, stupri, risse, furti, minacce. La cosa assurda – e preoccupante – è che queste perversioni non ci vengono mai a nausea, sia da parte di chi li commette, sia da parte dello spettatore che gode dello spettacolo della morte. Siamo un popolo di ingordi della morte e della violenza.
Il Principe Azzurro, invece, non esiste. Ci abituano e ci insegnano a crescere convincendoci del contrario. Quello che dovremmo imparare, su cui dovremmo allenarci ed esercitarci è la capacità di discernimento: comprendere ciò che è favola, da ciò che favola non è. Basta illusione, basta evasione. Se c’è qualcosa da cui evadere sono gli stereotipi.
I libri, l’arte, la scienza, la matematica, la filosofia, i viaggi, le lingue, la cultura servono a questo. Ad apprendere, imparare, a crescere e a migliorare.




*Il titolo si riferisce alla trama del thriller di Donato Carrisi, La casa dei silenzi di ultimissima pubblicazione con la Longanesi Editore. Lo “scarafaggio” è un essere molto pericoloso che, il più delle volte, si stenta a riconoscere perché è bravissimo a mascherarsi e ad assumere l'aspetto di “salvatore”.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 11/11/24

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Leggere è fondamentale


Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 07/11/24

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Malèna di Giuseppe Tornatore



Maddalena Bonsignore Scordìa, per tutti Malèna, è una bellissima donna siciliana sposata ad Antonino Scordìa partito per il fronte a combattere la guerra. Siamo a Castelcutò, un paese immaginario della Sicilia e il tempo in cui avvengono i fatti è quello della seconda guerra mondiale.

Malèna è un film di Giuseppe Tornatore del 2000, pellicola che lanciò Monica Bellucci, nel ruolo della protagonista, nel panorama delle attrici internazionali, e forse per questo l’opera più nota della modella/attrice umbra. E non solo.

È indubbio che la pellicola di Tornatore mette in risalto le armoniose curve e la perfezione delle linee del corpo della Bellucci la quale, a doti fisiche, non è pari a nessun altra donna (ma questo è solo un parere di chi scrive, da ritenersi quale giudizio meramente soggettivo e non universale), tuttavia non ci occuperemo di fare lo scanner alla bella Monica – anche perché il suo corpo parla da solo e già è stato detto tanto – ma di analizzare quelli che sono i veri aspetti del lungometraggio, messi in secondo piano a causa della esondante bellezza della Bellucci che offusca i messaggi contenuti nel film.

Dunque, c’è questa donna. Sola, perché il marito è partito per la guerra. Bellissima e desiderata da tutti gli uomini del paese, ragazzini compresi e alle prese con le prime turbe ormonali dell’adolescenza.

Ci sono due fattori che giocano a sfavore di Malèna (molto a sfavore): il fatto di essere una donna e di essere anche tanto, troppo, molto bella. La sua bellezza, più che una dote, è una disgrazia. Tutte le donne di Castelcutò la invidiano e ne sono gelose, e l’invidia, si sa, rende le persone molto cattive per non dire malvage. L’invidia genera anche pettegolezzo oltre che cattiveria, e infatti la bella Malèna non ha rapporti con nessuno perché nessuna vuol farsela amica (stupidità mista a ignoranza) scegliendo la strada più semplice che è quella di sparlarle dietro le spalle ogni volta che attraversa il paese per sbrigare le commissioni. La donna vive quindi una solitudine totale: non ha il marito accanto, non ha amiche, né sorelle e fratelli, ogni tanto va a far visita al padre anziano per portargli la spesa o preparargli un pasto caldo.

La solitudine diventa una terza disgrazia per Malèna, il peso di essa si aggrava e diventa condanna perché inflitta dalle sue concittadine che, con le loro malelingue, le fanno terra bruciata intorno. A lungo andare il pettegolezzo diventa diffamazione e il padre di Malèna, stanco delle continue voci che girano sul conto della figlia, decide di interrompere ogni rapporto con lei.

Ma le sventure per la donna non finiscono qui. Dal fronte giunge la notizia che Antonino è morto in guerra e con i bombardamenti in atto, tra le tante vittime, ci resta secco pure il padre di Malèna.

Rimasta sola e senza risorse, la donna comprende, suo malgrado, che l’unica maniera per tirare avanti è quella di dare concretezza alle parole che sino a quel momento erano solo dicerie sulla sua persona: complice la sua bellezza, si prostituisce.

Ancor prima che accade questo avvenimento Malèna viene persino violentata dal suo avvocato che l’aveva difesa in una causa (da lei vinta) per presunto adulterio (occorre dire che Malèna resta sempre fedele al marito, conduce una vita ritirata e cammina per strada sempre ad occhi bassi per non alimentare fantasie negli uomini). Tutto quello che si vede nel film – e che, ad un occhio scrupoloso, dovrebbe fungere solo da contorno come l’insalata che accompagna le portate nei piatti – è solo un prodotto di fantasticherie, immaginazioni, sogni, desideri, affanni, di Renato (il ragazzino per cui Malèna diventa una vera ossessione) e poi del resto della truppa appartenente al sesso adulto, tant’è che quando la donna arriva a offrirsi realmente agli uomini del suo paese per campare (mi vien da dire al gruppo dei pervertiti, ma sarebbe un pregiudizio il mio, oltre che un’offesa gratuita a gente che non ha nessuna colpa, qui comunque il discorso si allunga quindi lasciamo sta’) le scene dove compare “più scoperta” cominciano a ridursi.

È infatti sul volgere del finale che vengono a galla i messaggi lanciati dal film.

Innanzitutto vorrei far notare quanto sia agghiacciante la scena in cui le compaesane di Malèna la trascinano in piazza per picchiarla e pestarla a sangue con un odio e una violenza esasperati sino all’inverosimile. Unico scopo, se così vogliamo definirlo per quelli che erano i tempi della guerra anche se la violenza non dovrebbe mai avere una giustificazione, dovrebbe essere la rabbia di queste donne nei confronti di una concittadina che ha tradito collaborando con i tedeschi ma queste, più che per il già specificato scopo che utilizzano come esimente, si avventano su di lei come squali per sfogare le loro frustrazioni, l’invidia e la gelosia repressa per tutto il tempo. Arrivano persino ad umiliarla tagliandole i capelli tra le lacrime e i singhiozzi di Malèna che, totalmente indifesa, non sa come sfogare la propria disperazione. Non dice nulla, come ha sempre fatto. Urla soltanto. Urla il proprio dolore, sporca, insanguinata, col moccio al naso, le ferite al viso, le ginocchia sbucciate e coi capelli rasati. Guarda ad una ad una le sue carnefici girando in tondo al cerchio che le fa da muro. Col suo grido è come se dicesse “Cosa volete da me? Non è colpa mia se questa bellezza mi è stata donata, non è colpa mia se i vostri uomini mi desiderano, io non ho mai fatto nulla con loro, non li ho mai provocati, non ci ho mai parlato. Se l’ho fatto adesso, l’ho fatto perché mi era necessario per vivere. Sono una donna e sono sola perché sono rimasta vedova e orfana, non ho mai avuto l’appoggio di nessuna di voi presenti. Perché tanto odio?”

Dopo questo spiacevole episodio Malèna è costretta a fuggire a Messina, consapevole che Castelcutrò non avrà più nulla da darle poiché ha perso tutto (dignità, reputazione, denaro), soprattutto ora che la guerra è finita.

A questo punto accade qualcosa che rovescia le carte in tavola. Antonino, il marito di Malèna, da tutti ritenuto morto fa ritorno al suo paese. La prima cosa che fa è tornare a casa dalla moglie ma, con sgomento, si accorge che la casa coniugale è stata occupata dagli sfollati di guerra, e che Malèna è dovuta scappar via per cercare fortuna a Messina dato che a Castelcutrò tutti – persino chi prima la anelava sognandola notte e giorno – le hanno voltato le spalle. Antonino apprende tutto questo da una lettera che gli fa avere Renato, il quale non è mai riuscito a togliersi Malèna dalla testa, ed è l’unico di tutti gli abitanti di Castelcutrò che ha compreso le sventure che la povera donna ha dovuto subire dalla gente per via della sua bellezza. L’uomo decide così di partire anche lui per Messina per ricongiungersi alla moglie salvo fare ritorno, un anno dopo, assieme a Malèna e di attraversare con lei a braccetto, e a testa alta (lui solo perché lei mantiene sempre gli occhi bassi), le stesse strade e le stesse vie che la donna percorreva tutti i giorni da sola sotto gli sguardi degli uomini affamati del suo corpo e delle donne che la vituperavano.

Adesso, agli occhi di queste ultime, Malèna è un’altra persona. Quando si reca al mercato le donne la salutano e le regalano persino gli abiti e il cibo, nonostante Malèna voglia pagarle. Sono loro le prime a rivolgerle la parole e a dirle “buongiorno”, e con grande sorpresa Malèna risponde al saluto con “buongiorno” (queste signore sono le stesse che l’avevano pestata a sangue).

L’intera vicenda di Malèna viene raccontata dal giovane Renato, che solo alla fine del film avrà modo di interagire per la prima e unica volta con la donna aiutandola a raccogliere le arance che le erano scivolate dalla borsa della spesa. La scena finale è quella di Malèna che si allontana di spalle per far ritorno a casa, reintegrata nella sua dignità e nella comunità di Castelcutrò.

Per essere una pellicola del 2000, il film di Tornatore presenta molti tratti patriarcali. In primo luogo la figura della Bellucci (messa tanto in risalto) suggerisce che la donna sia solo un oggetto (e non un soggetto) da desiderare e da usare a proprio piacimento. In secondo luogo che il compito della donna sia solo quello di essere una brava e devota moglie che aspetta il proprio uomo a casa, che deve occuparsi solo di cucinare, rassettare la casa, fare la spesa e, al massimo, andare a far visita ai propri parenti. Inoltre deve camminare a testa bassa (come se camminare a testa alta possa recare offesa a qualcuno) e deve vestirsi in modo tale da non attirare occhiate e sguardi indiscreti. In terzo ed ultimo luogo non è bene che una donna viva da sola, qualunque siano le ragioni anche quelle che esulano dalla volontà di quest’ultima, tanto più se è bella e attira il maschio come la vista del sangue attira gli squali.

Due scene mi fanno venire l’orticaria: il pestaggio di Malèna in pubblico sotto l’indifferenza di tutti, uomini compresi (qui sì che scatta la perversione, a differenza di prima, e la prevaricazione) e la considerazione negativa che si aveva di questa donna che diventa più che positiva quando la si vede con un uomo al suo fianco.

Non mi voglio dilungare troppo sul tema (specie sull’ultimo punto), e non perché poi mi tacciano di fare apologia sulle donne e sul femminismo in generale, non mi va di fare la maestrina, né la sapientona, né la vittima (pure perché non mi sento di essere nessuna delle tre). Voglio solo far riflettere su un argomento che, secondo me, andrebbe spogliato di tanto retaggio che ci trasciniamo dietro da secoli (scusate ma voi le cose vecchie – dove per vecchie intendo le cose che non funzionano più, da non confonderle con gli oggetti a cui siamo legati per un valore affettivo – le buttate oppure ve le conservate come cimeli? Lo stesso procedimento dobbiamo utilizzarlo per quanto concerne i rapporti sociali. Si butta via ciò che non è più utile per passare al nuovo che frutterà più del suo predecessore. Non avete tutti i cellulari di nuova generazione? E perché riuscite a sbarazzarvi del cellulare ogni settimana e non riuscite a disfarvi di certi preconcetti e pregiudizi che vi danno un’aria da vetusti bacucchi? Stesso discorso valga per le macchine, la playstation, il pc e tutte le altre diavolerie informatiche).

Se ci pensate, alla fin dei conti, oggetti e pensieri sono la stessa cosa perché si possono cambiare. E quando cambi una cosa non la cambi mai con un’altra peggiore, ma sempre con un’altra cosa migliore che possa darti una maggiore funzionalità e utilità.

Date retta a una povera scema: ogni tanto fate cambiare aria al vostro cervello. Imparate ad allenarlo.

È più importante scolpire il cervello anziché i muscoli del corpo (o della faccia) che col tempo avvizziscono.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 02/10/24

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One Flew Over The Cuckoo's Nest


Credits: scena tratta dalla pellicola di Miloš Forman del 1975 Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over The Cuckoo's Nest)

da sinistra: Will Sampson (Grande Capo Bromden), Josip Elic (Bancini) e Jack Nicholson (Randle Patrick McMurphy)

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 28/09/24

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La frustrazione



Che senso frustrante di frustrazione!

Ogni sera una scudisciata dietro le spalle…

Chi è?, chiedo in allerta e con rassegnazione,

eccola là: un’altra pena, la spada di Damocle che non mi abbandona.

Mi sono recato in ospedale per farmi curare,

c’era da attendere e dopo che sono entrato mi hanno detto che non c’è più speranza

così ho preso a schiaffi il personale

pugni, spintoni, fino a spaccargli le ossa

non c’è competenza, non c’è ascolto, non ci sono soldi.

Che senso frustrante di frustrazione!

Tutti i giorni dietro a un bancone, a uno sportello, a una scrivania

a contatto con le persone

l’azienda ha operato i tanto temuti tagli e siamo rimasti in cinque

siamo subissati di richieste, turni, incombenze, lamentele, rimproveri

di finanziamenti non ce ne sono, lo stipendio è fermo a mille.

C’ho un senso di frustrazione che non puoi capi’

fidati quando ti dico che non puoi capire,

perché se non lo senti sotto pelle, se non lo vivi tutti i giorni nell’indifferenza

nella povertà, nell’impotenza e nella disperazione

non ha senso parlarne

tu mi metti limiti dove limiti non dovrebbero essercene

censuri la mia libertà di espressione, la mia identità, i miei sogni

offrendoli come merce di scambio senza valore a chi è indegno di prendere il mio posto.

La mia frustrazione è grande e non la puoi capire

devo solo accontentarmi se non posso avere figli,

se non ho una famiglia perché mi hanno abbandonato in mezzo ad una strada,

se non posso amare alla luce del sole perché chi è diverso diventa colpa e vergogna.

Devo leccarmi le ferite da sola

al 112 e al telefono rosa mi hanno detto di stare tranquilla

ma temo per la mia incolumità e per quella dei miei bambini,

la Legge è dalla sua parte a me nessuno m’ascolta

solo perché la genetica ha scelto per me e ha scelto che dovevo nascere donna.

Ho cucito addosso il peso della frustrazione

a scuola, nel gruppo delle chat, con i compagni, in palestra, al catechismo

sono il pupazzo di tutti,

a casa i miei pensano a come fare entrare i soldi e a sperperarli per le vacanze e nelle feste con gli amici,

gli insegnanti non se ne curano,

mia sorella pensa a farsi bella davanti ad uno specchio

e mio fratello a confezionarsi l’ennesima canna.

Sono opulento di frustrazione perché sono precario da anni

dopo esser passato tra milioni di lavori sognavo un matrimonio, una famiglia, l’indipendenza

invece a 55 anni sono ancora a carico dei miei genitori.

Sono un professionista e la mia colpa è la partita IVA

lo Stato rimesta ogni giorno nelle mie tasche

dice pe’ nuove opere, iniziative, benefici, aiuti, solidarietà, fingendosi interessato ai problemi dei cittadini

con una maschera di perbenismo percula le mie responsabilità.

Sono stato nuociuto, truffato, offeso, percosso,

hanno assassinato il mio DNA

ma Dike è solo dei potenti non dei deboli, non è uguale per tutti

pecunia non olet.¹

Ho un senso frustrante di frustrazione,

ogni sera prima di mettermi a letto, e dopo in ogni momento,

quel nerbo è sempre più violento,

picchia con fare sicuro e non sbaglia un colpo,

sai che c’è? Adesso urlo io con tutto il fiato che ho in corpo.

Grido

così me senti

perché è il solo modo per dirti che ci sono anch’io,

che voglio attenzione, che voglio rispetto per il mio dolore,

in fondo non ti chiedo nulla

l’amore e la comprensione non hanno prezzo

ma impara a riconoscerne il valore.

E poco importa se do spettacolo

se sarò un altro pezzo da dare in pasto alla stampa

a fraintendere sono sempre i fraintesi

non sono io l’artefice del costume che diventa esempio.

Che senso frustrante di frustrazione!

Ogni sera una scudisciata dietro le spalle

nun ce sta niente da fa’

tocca porta’ avanti ‘sta baracca.²




Credits: l’illustrazione è di Luciano De Crescenzo, dal libro Luciano De Crescenzo disegnatore, catalogo della mostra al Nilo Museum Shop, Enciclopius Edizioni 2015

¹Pecunia non olet letteralmente «I soldi non puzzano», risposta dell’imperatore romano Vespasiano al figlio Tito che lo rimproverò per una tassa imposta sugli orinatoi, nel gergo comune diventata un’espressione che sta a significare di non fare troppe sottigliezze circa la provenienza del denaro.

² L’elenco delle circostanze nella “filastrocca” non è da considerarsi esaustivo.

Autrice : Carla Iannacone | Categoria : Riflessioni | Commenti pubblicati dagli utenti : 0 | Data : 17/09/24

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