Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
Questo è un post diverso dagli altri.
Non ha niente a che fare con i libri, gli aforismi, le discussioni, le riflessioni. Ce l’ho voluto mettere perché tra pochi giorni sarà il compleanno di mio zio.
Si può scrivere compleanno se il festeggiato è morto? Il vocabolario Treccani ci fa sapere che la parola compleanno deriva dallo spagnolo cumpleaños, composto dal verbo cumplir che significa «compiere», e dalla parola año che significa «anno». Se devo attenermi al significato letterale del lemma mi viene di rispondere che l’uso impiegato del vocabolo è sbagliato. Mio zio è morto, il treno giunto al capolinea ha portato a compimento il suo viaggio al binario 82.
D’istinto però ho ricordato a me stessa “Il primo aprile è il compleanno di zia e zio, devo fare gli auguri a tutti e due”, poi il tonfo sul pavimento e il brusco risveglio appena toccato terra. “Ma zio non c’è più!”
Sono quelle partenze a cui non ti ci abitui mai, anche se è passato già un anno. Se proprio devo dirla tutta, l’incubo ebbe inizio il 29 marzo del 2024 ed ha segnato l’epilogo una maledetta mattina dei primi di giugno dello stesso anno.
Basta cupezza. Stop al dramma. È un episodio allegro che voglio raccontarvi (almeno lo ricordo come allegro per quanto l’atmosfera non fosse delle più rilassanti).
Era la festa di compleanno di mio cugino (siamo in vena di genetliaci oggi) e, all’epoca dei fatti in cui si svolge questo racconto, frequentavamo le scuole secondarie di primo grado. Non eravamo maggiorenni per cui, al termine dei festeggiamenti, veniva uno dei nostri genitori a prenderci oppure ci riaccompagnava a casa uno dei genitori del festeggiato.
Funzionava così. Ad ogni compleanno si andava a casa dell’amico o amica di turno, si faceva baldoria, si mangiava, si ballava, si chiacchierava (si distruggeva pure qualcosa presi dai ludi e dall’eccitazione della festa), si cantava tanti auguri a te e si spegnevano le candeline. Ci si ingozzava di torta alla panna o al cioccolato fino a star male (il giorno dopo qualcuno degli invitati stava male per via delle ingordigie), si ballava un altro po’ e fine dei giochi. Questo avveniva in quella fascia d’età che va dai 6/7 anni fino ai 10/12 anni. Poi si apriva un altro capitolo della vita, per alcuni più drammatico, per altri più galvanizzante (l’adolescenza, come accade ancora oggi, era il preludio di questa fase).
Restiamo nel campo de les enfants terribles che è quello che ci interessa.
Termina la festa di mio cugino, è ora che i “pulcini” facciano ritorno al loro nido. Tocca a mio zio riportarci a casa con la macchina. Anche questo momento era dei più divertenti, perché avevamo l’occasione di girovagare per il paese di sera e conoscere la vita notturna a noi ancora preclusa (litigavamo sempre in merito a chi doveva essere accompagnato per ultimo).
Avviene però che quella sera mio zio fa un giro particolare, e ci conduce (letteralmente) al cimitero. In auto eravamo sei/sette persone, escluso mio zio. Adesso, come si erano infilate sei/sette persone in una Renault 5 grigia anni ’80 non lo so (sempre a proposito di compleanni, successe una cosa del genere con il 126 di mia madre¹), rammento solo che la sottoscritta sedeva avanti sulle ginocchia del cugino e gli altri invitati sulla seduta dietro.
Il momento è comunque drammatico: non solo stiamo stipati come sardine in un barattolo sotto sale, ci mancava pure un bella gita al cimitero (alle nove e mezza e passa di sera).
L’horror sta per avere inizio e la tensione è palpabile (forse qualcuno, approfittando della ammucchiata là dietro, si era già portato avanti con le “palpatine”, ma andiamo avanti). Giunti sul posto, mio zio parcheggia la Renault all’ingresso del camposanto, nello spiazzo dove c’è il cancello. L’auto viene posteggiata col muso avanti e con il cofano posteriore INCOLLATO alla inferriata del cancello. Chiunque provi a girare poco poco il collo si trova davanti ad una vista mozzafiato (anche qui da intendersi nel senso letterale del termine). Il lungo corridoio delineato da alti fusti di cipressi piantati sul lato destro e sul lato sinistro del terreno è appena visibile con l’oscurità della notte, resa ancora più densa e cupa dalla vegetazione arborea e dalle siepi che circondano le tombe dei defunti.
Ma non basta. Volete mettere le numerose luci dei loculi che sembrano tante belle lucine di Natale ma che, invece di adornare e illuminare l’abete, rischiarano i volti dei morti che in quel momento, nun se sa come, se scorgono pure da lontano attraverso i vetri dei finestrini di un’auto e paiono farti innocentemente “ciao ciao” col sorriso scolpito nella foto delle lapidi?
Poi succede quello che nessuno di noi si aspetta.
Dopo aver arrestato la macchina, mio zio apre la portiera e scende. E si allontana sparendo dai nostri occhi.
Rimaniamo soli, nella notte, in una strada alla periferia del paese dove non passa mai nessuno (al massimo qualche vacca al pascolo e relativo pastore ma non prima delle sei di mattina), ammassati in una Renault 5 nello spiazzo del cimitero, in esclusiva compagnia dei morti.
Partono gli urli (a gridare in realtà è una sola ragazza che si lascia subito impressionare dal luogo e dall’atmosfera che si respira, ammesso che la parola “respiro” c’entri qualcosa coi cadaveri). Gli altri – i più sono ragazzi – cercano in tutti i modi di stemperare la tensione lanciandosi in un fitto chiacchiericcio per esorcizzare la paura che li sta divorando (ma che, di fronte agli occhi delle ragazze, cercano di mascherare). Matteo, che siede retro al centro, è l’unico che resta muto. Finge una calma, si nota lontano un miglio, che non ha.
«Matte’, che c’hai paura?» domanda mio cugino che, insieme a me, si è voltato a guardare i suoi amici. Io e lui siamo gli unici a trovare la situazione davvero divertente e a sbeffeggiare il resto del gruppo.
Matteo fa un breve cenno con la testa a significare che la circostanza lo lascia indifferente. È una statua di sale. A un certo punto mi assale il dubbio che un morto lo abbiamo anche noi in macchina mentre cerchiamo di far star buona Anna Lucia che nel frattempo, con gli strilli, i morti li ha svegliati tutti (l’hanno sentita pure quelli del cimitero di Cagnano Varano).
«Guarda che se continui a urlare vengono fuori e ti tirano per i capelli chiedendoti di smetterla perché gli disturbi il sonno» faccio io. Non si è rivelata una bella battuta perché ottengo l’effetto contrario.
«Ma tuo padre dove è andato?» chiede Davide.
«Boh!» risponde tranquillo mio cugino guardandosi intorno.
Matteo, intanto, è da seppellire. Lo osservo e non mi faccio capace che uno dei ragazzi tanto aitante e tanto ambito è un cagasotto (il fascino talvolta inganna). E in quegli istanti faccio una riflessione su quanto è stato rapido il passaggio dal pomiciare (in cui si era impegnati fino a qualche minuto fa) al diventare deboli e indifesi di fronte alla paura. Detto tra noi: questi potevano approfittare ora della situazione dato che zio se n’era andato, eravamo soli, e pure in mezzo alle fratte! Fratte del camposanto sì, ma pur sempre fratte erano. Quando te ricapitava più se non fra altri cinque/sei anni?
Passano quanto? Altri sette, dieci minuti di agitazione? Di zio neanche l’ombra (tutte le altre sì, c’era l’imbarazzo della scelta). Comincio a preoccuparmi, e non perché soffro di allucinazioni, provo spavento o altro – anche se la circostanza non è delle più rilassanti – ma perché inizio a pensare che forse gli è successo qualcosa che gli impedisca di fare ritorno e venire a prenderci. Per convincermi che le mie sono solo inutili fantasie guardo mio cugino: è sereno, conosce suo padre. Sa che non ci ha abbandonato. È uno dei suoi soliti scherzi.
Infatti fa ritorno dopo poco, e quando apre lo sportello della Renault lo vediamo che si sbellica dalle risate.
«Ve la siete fatta sotto, eh».
I pulcini sono salvi, i morti continuarono il loro sonno eterno un po’ più tranquilli, gli ormoni invece l’indomani si ridestarono e si misero a lavoro come se la notte precedente non fosse successo nulla.
Fine della storia.
¹ In occasione di un mio compleanno, allora ad accompagnare le mie amiche fu mia madre. Premetto che l’auto di famiglia era – ed è ancora – un maggiolino Fiat 126 di colore blu. Succede che nel momento di riportarle a casa, anche in quel caso ammassate come scrofe in un porcile (peraltro in un veicolo di misure più ridotte rispetto ad una Renault) e sempre verso le nove di sera, incrociamo una autopattuglia dei carabinieri che inizia a seguirci. Considerato che non è proprio legale viaggiare in macchina con un numero considerevole di gente a bordo, mia madre, presa dal panico che possano arrestarla, sequestrarle il veicolo o elevarle la contravvenzione, si mette a fare lo slalom per le vie del paese nel tentativo di seminarli. Immaginate cosa possono aver pensato gli ufficiali in divisa nel vedere che c’era una donna al volante di un 126 carico de ragazzine... di sera, che cammina a passo spedito, e che se mette a core come ‘na matta appena li avvista allo scopo di far perdere le sue tracce e a farli desistere dall’inseguimento (che non avvenne). Una tizia assoldata da una banda di pedofili con la “merce” fresca da consegnare ai suoi capi. «Signora, che aveva intenzione di fare?» le domanda uno dei due ufficiali dell’arma quando capisce che è il caso di fermarsi e abbassa il finestrino del 126. «Guardi, lei mi deve scusare… stavo solo riaccompagnando le amiche di mia figlia a casa. Abbiamo appena finito di festeggiare il suo compleanno. Lo so, ho fatto una cosa che non dovevo fare, ma siccome non potevo lasciarle da sole mentre aspettavano che finissi il giro per accompagnare ognuna di loro, le ho fatte salire tutte quante in macchina… ma andavo piano, lo giuro» fu la risposta di mia madre che, dopo i dovuti controlli effettuati dai carabinieri, rassicurati dal brio che disegnava larghi e spensierati sorrisi sulle nostre facce di bimbe, fu “rilasciata” senza conseguenze a scorrazzare come una criminale per le strade del paese.