Charlie Brown
"Solo gli imbecilli non hanno dubbi"
"Ne sei sicuro ?"
"Non ho alcun dubbio!"
(Luciano De Crescenzo)
Nella foto la copertina del libro e Daphne du Maurier
“Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley. Mi pareva di essere al cancello che dà sul viale di ingresso, e non potevo entrare: la via era sbarrata. Una catena con un lucchetto chiudeva il cancello. In sogno chiamavo il guardiano, ma nessuno mi rispondeva, e accostandomi a guardare tra le sbarre arrugginite, mi accorgevo che la casetta era disabitata”.
Così comincia Rebecca, la prima moglie romanzo del 1938 della scrittrice inglese Daphne du Maurier, meglio nota come la musa ispiratrice di Alfred Hitchcock.
Il libro è di sicuro il capolavoro più riuscito dell’autrice, tant’è che ebbe uno strepitoso successo (fu adattato per il teatro, nel 1940 Hitchcock produsse una pellicola con Joan Fontaine e Laurence Olivier, e nel 2013 la Rai mandò in onda la fiction con Cristiana Capotondi e Alessio Boni).
A Montecarlo, durante un viaggio, una giovane donna che lavora come dama di compagnia per una vecchia signora dispotica e pettegola – che accompagna durante il soggiorno – conosce il ricco vedovo Maximilian de Winter. L’incontro avviene per caso, mentre stanno desinando nella sala ristorante dell’albergo; è la stessa signora van Hopper ad avvicinarlo e a informare la giovane dama chi è Maximilian de Winter. Fatto sta che la fanciulla (di cui non si conosce il nome perché l’autrice non lo rivelerà mai per tutto il corso del romanzo scritto in prima persona) e il facoltoso de Winter finiscono col provare attrazione l’una per l’altro, che scatena un garbato e discreto corteggiamento da parte di quest’ultimo. Quando arriva il giorno della partenza lei, sconsolata, gli comunica che deve tornare in America ed è in quel preciso istante che d’impeto lui le chiede di lasciare tutto e di seguirlo in Cornovaglia perché vuole sposarla. Lei accetta e, resa edotta la signora van Hopper che non prende affatto bene la decisione, insieme a Maximilian si trasferiscono nella tenuta di Manderley.
Tuttavia, sin dal primo momento in cui la giovane mette piede in quella che è e sarà la dimora coniugale, le cose non saranno affatto come immaginava. La sua goffaggine, la sua timidezza, la sciatteria, la giovane età, stridono con quello che è l’ambiente raffinato e di lusso di Manderley. Non ha nessuna idea di come si porta avanti una tenuta di quelle dimensioni, di come impartire gli ordini ai domestici, di come trascorrere le giornate, di come vestirsi, di come organizzare feste, ricevimenti, insomma non è assolutamente adusa alla vita di una società di un certo livello (e di una certa classe). La situazione diventa ancora più pesante con la presenza della signora Danvers in ogni angolo del maniero, di cui conosce tutte le stanze, tutti gli oggetti, tutti i ninnoli, le lenzuola, le tende, i quadri, le suppellettili, i profumi, i mobili, gli specchi, i libri, le finestre ecc. Un vero e proprio cane da guardia che darà alla giovane signora de Winter del bel filo da torcere.
La signora Danvers è la governante di Manderley e, prima ancora, era la governante nonché cameriera personale di Rebecca, la prima moglie di Maximilian morta in una tragica circostanza. Va da sé che, avendo vissuto per tanti anni accanto a Rebecca considerandola al pari di una figlia, questo secondo matrimonio del padrone non lo prende per niente bene ma, soprattutto, non accetta che il posto di Rebecca venga riempito dalla presenza di una donna di basso rango sociale, sciatta e inesperta, che non tarda a far sentire inadeguata e usurpatrice del ruolo di moglie (quasi come se essere diventata la signora de Winter fosse un vero affronto nei confronti della sua padrona).
Rebecca è bellissima. È la donna più bella mai esistita (testuali parole riferite dal cognato di Maximilian alla moglie di quest’ultimo durante una passeggiata nel giardino della tenuta), ma Rebecca è morta. La peculiarità di questo romanzo sta nel saper fare di una morta la protagonista assoluta. Rebecca è ovunque: nei dialoghi, nelle stanze di Manderley, nel cibo, nei vestiti, nel giardino, nelle rose, nelle vacanze, nelle foto, nelle abitudini e nei costumi della casa, nelle lettere… è una presenza ingombrante nel senso vero e proprio della parola. La du Maurier la fa pesare questa cosa, fa sentire l’ombra costante di Rebecca, la sottolinea, ne fa parlare in continuazione i personaggi, anche il cane ne sente la mancanza (è difficile farlo schiodare dall’angolo vicino al camino per fargli sgranchire le zampe all’aria aperta, conosce i passi di Rebecca, di conseguenza non si alza più, e chiunque entri nel salone manco ci fa caso).
Il personaggio di Rebecca è molto particolare, affascina non solo per la sua bellezza e per le sue competenze di gran donna e padrona di casa, ma anche per il suo mistero. Tutti ne parlano bene e chi non ne parla – o non ne vuole parlare – si chiude in un ostinato silenzio che dice più delle parole. Il confronto con la prima moglie è all’ordine del giorno. Non è solo la signora Danvers ad affondare il dito nella piaga ma pure il resto della servitù, la sorella di Maximilian, il di lei marito, Jack Favell (cugino di Rebecca) e Ben (figura molto interessante che è la chiave di volta della storia), lo scemo che bazzica nei pressi della costa del mare (Manderley è situato poco lontano dal mare).
È un testo cupo, una favola nera (perché, analizzando la storia, di una favola si tratta) che gioca molto sulla psicologia dei personaggi (sulla scia dei gialli di Simenon) tutti ben cesellati tanto da ricordare benissimo anche quelli che stanno lì solo come comparsa.
È un libro che lessi quando avevo 13 anni (quello che resta il mio libro preferito nonostante nel corso del tempo ne ho letti tantissimi) ma posso dire che i personaggi li ricordo tutti, come ricordo la loro caratterizzazione per via di alcune scene che mi sono rimaste impresse nella mente; ad esempio quella della signora van Hopper che si insudicia il viso di sugo mentre se ne sta seduta a pranzare nonostante abbia legato al collo un fazzoletto, la figura nera della signora Danvers che si stacca dalla fila degli inservienti quando Maximilian e la moglie fanno ritorno a casa dal viaggio di nozze per le dovute presentazioni, la calligrafia elegante di Rebecca che firma con una R slanciata e un po' obliqua, o ancora la macchia scura del tappeto che la signora de Winter nota sotto i piedi nell’aula di tribunale (ok, vi ho fornito abbastanza elementi per farvi venire la curiosità e leggerlo? Non rimarrete delusi, ve lo assicuro).
Che poi, un occhio attento si accorge subito che già l’incipit rivela su che registro viaggia l’opera, “Mi pareva di essere al cancello che dà sul viale di ingresso, e non potevo entrare: la via era sbarrata”. “La via era sbarrata”, alias “Tu qua non puoi entrare”. “In sogno chiamavo il guardiano, ma nessuno mi rispondeva”, “Tu non esisti perché non fai parte di questo ambiente, tu non sei e non sarai mai come Rebecca”.
Ma allora perché un uomo di una certa età, vedovo, ricco, che gode di una grande reputazione, che aveva una moglie bellissima di cui, a detta di chi gli gira intorno e lo conosce, era innamoratissimo, di cui sente la mancanza, vive nel suo ricordo, si prende la briga di sposare una giovane donna che è tutto l’opposto della prima moglie fregandosene di quello che possano pensare o dire gli altri?
Cosa c’è sotto? Cos’è che stona?
Il libro parte lento, è molto descrittivo e minuzioso nei passaggi da una scena ad un’altra (come se si assistesse ad una pellicola di Stanley Kubrick), rammento che anni fa, quando lo lessi, lo abbandonai per qualche settimana perché dapprincipio non riusciva a coinvolgermi per il suo essere pedante nelle descrizioni. Quando lo ripresi non riuscii più a fermarmi tanto che lo ricordo (e lo rileggo molto volentieri) ancora oggi.
Rebecca non è solo il mio libro preferito, è anche la mia password.
Post scriptum: ora recatevi in banca e svaligiate la mia cassetta di sicurezza.